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Nuova presenza in Rwanda

Il giorno 22 agosto di quest’anno la nostra Congregazione in Rwanda, si é allargata aprendo una nuova casa nella parrocchia di Nkanga. Abbiamo assistito al rito di benedizione della casa nella quale le consorelle hanno dato vita alla nuova comunità. Il rito è stato presieduto dal nostro amato Arcivescovo e Cardinale  monsignor Antonio KAMBANDA.

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Omelia del Santo Padre Francesco San Pietro 2 febbraio 2022

Due anziani, Simeone e Anna, attendono nel tempio il compimento della promessa che Dio ha fatto al suo popolo: la venuta del Messia. Ma la loro attesa non è passiva, è piena di movimento. Seguiamo dunque i movimenti di Simeone: egli dapprima è mosso dallo Spirito, poi vede nel Bambino la salvezza e finalmente lo accoglie tra le braccia (cfr Lc 2,26-28). Fermiamoci semplicemente su queste tre azioni e lasciamoci attraversare da alcune domande importanti per noi, in particolare per la vita consacrata.
La prima è: da che cosa siamo mossi? Simeone si reca al tempio «mosso dallo Spirito» (v. 27). Lo Spirito Santo è l’attore principale della scena: è Lui che fa ardere nel cuore di Simeone il desiderio di Dio, è Lui che ravviva nel suo animo l’attesa, è Lui che spinge i suoi passi verso il tempio e rende i suoi occhi capaci di riconoscere il Messia, anche se si presenta come un bambino piccolo e povero. Questo fa lo Spirito Santo: rende capaci di scorgere la presenza di Dio e la sua opera non nelle grandi cose, nell’esteriorità appariscente, nelle esibizioni di forza, ma nella piccolezza e nella fragilità. Pensiamo alla croce: anche lì è una piccolezza, una fragilità, anche una drammaticità. Ma lì c’è la forza di Dio. L’espressione “mosso dallo Spirito” ricorda quelle che nella spiritualità si chiamano “mozioni spirituali”: sono quei moti dell’animo che avvertiamo dentro di noi e che siamo chiamati ad ascoltare, per discernere se provengono dallo Spirito Santo o da altro. Stare attenti alle mozioni interiori dello Spirito. Allora ci chiediamo: da chi ci lasciamo principalmente muovere: dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo? È una domanda su cui tutti dobbiamo misurarci, soprattutto noi consacrati. Mentre lo Spirito porta a riconoscere Dio nella piccolezza e nella fragilità di un bambino, noi a volte rischiamo di pensare alla nostra consacrazione in termini di risultati, di traguardi, di successo: ci muoviamo alla ricerca di spazi, di visibilità, di numeri: è una tentazione. Lo Spirito invece non chiede questo. Desidera che coltiviamo la fedeltà quotidiana, docili alle piccole cose che ci sono state affidate. Com’è bella la fedeltà di Simeone e Anna! Ogni giorno si recano al tempio, ogni giorno attendono e pregano, anche se il tempo passa e sembra non accadere nulla. Aspettano tutta la vita, senza scoraggiarsi e senza lamentarsi, restando fedeli ogni giorno e alimentando la fiamma della speranza che lo Spirito ha acceso nel loro cuore. Possiamo chiederci, noi, fratelli e sorelle: che cosa muove i nostri giorni? Quale amore ci spinge ad andare avanti? Lo Spirito Santo o la passione del momento, ossia qualsiasi cosa? Come ci muoviamo nella Chiesa e nella società? A volte, anche dietro l’apparenza di opere buone, possono nascondersi il tarlo del narcisismo o la smania del protagonismo. In altri casi, pur portando avanti tante cose, le nostre comunità religiose sembrano essere mosse più dalla ripetizione meccanica – fare le cose per abitudine, tanto per farle – che dall’entusiasmo di aderire allo Spirito Santo. Farà bene, a tutti noi, verificare oggi le nostre motivazioni interiori, discerniamo le mozioni spirituali, perché il rinnovamento della vita consacrata passa anzitutto da qui.
Una seconda domanda: che cosa vedono i nostri occhi? Simeone, mosso dallo Spirito, vede e riconosce Cristo. E prega dicendo: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (v. 30). Ecco il grande miracolo della fede: apre gli occhi, trasforma lo sguardo, cambia la visuale. Come sappiamo da tanti incontri di Gesù nei Vangeli, la fede nasce dallo sguardo compassionevole con cui Dio ci guarda, sciogliendo le durezze del nostro cuore, risanando le sue ferite, dandoci occhi nuovi per vedere noi stessi e il mondo. Occhi nuovi su noi stessi, sugli altri, su tutte le situazioni che viviamo, anche le più dolorose. Non si tratta di uno sguardo ingenuo, no, è sapienziale; lo sguardo ingenuo fugge la realtà o finge di non vedere i problemi; si tratta invece di occhi che sanno “vedere dentro” e “vedere oltre”; che non si fermano alle apparenze, ma sanno entrare anche nelle crepe della fragilità e dei fallimenti per scorgervi la presenza di Dio.
Gli occhi anziani di Simeone, pur affaticati dagli anni, vedono il Signore, vedono la salvezza. E noi? Ognuno può domandarsi: che cosa vedono i nostri occhi? Quale visione abbiamo della vita consacrata? Il mondo spesso la vede come uno “spreco”: “Ma guarda, quel ragazzo così bravo, farsi frate”, o “una ragazza così brava, farsi suora… È uno spreco. Se almeno fosse brutto o brutta… No, sono bravi, è uno spreco”. Così pensiamo noi. Il mondo la vede forse come una realtà del passato, qualcosa di inutile. Ma noi, comunità cristiana, religiose e religiosi, che cosa vediamo? Siamo rivolti con gli occhi all’indietro, nostalgici di ciò che non c’è più o siamo capaci di uno sguardo di fede lungimirante, proiettato dentro e oltre? Avere la saggezza del guardare – questa la dà lo Spirito –: guardare bene, misurare bene le distanze, capire le realtà. A me fa tanto bene vedere consacrati e consacrate anziani, che con occhi luminosi continuano a sorridere, dando speranza ai giovani. Pensiamo a quando abbiamo incontrato sguardi simili e benediciamo Dio per questo. Sono sguardi di speranza, aperti al futuro. E forse ci farà bene, in questi giorni, fare un incontro, fare una visita ai nostri fratelli religiosi e sorelle religiose anziani, per guardarli, per parlare, per domandare, per sentire cosa pensano. Credo che sarà una buona medicina.
Fratelli e sorelle, il Signore non manca di darci segnali per invitarci a coltivare una visione rinnovata della vita consacrata. Ci vuole, ma sotto la luce, sotto le mozioni dello Spirito Santo. Non possiamo fare finta di non vedere questi segnali e continuare come se niente fosse, ripetendo le cose di sempre, trascinandoci per inerzia nelle forme del passato, paralizzati dalla paura di cambiare. L’ho detto tante volte: oggi, la tentazione di andare indietro, per sicurezza, per paura, per conservare la fede, per conservare il carisma fondatore… È una tentazione. La tentazione di andare indietro e conservare le “tradizioni” con rigidità. Mettiamoci in testa: la rigidità è una perversione, e sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi. Né Simeone né Anna erano rigidi, no, erano liberi e avevano la gioia di fare festa: lui, lodando il Signore e profetizzando con coraggio alla mamma; e lei, come buona vecchietta, andando da una parte all’altra dicendo: “Guardate questi, guardate questo!”. Hanno dato l’annuncio con gioia, gli occhi pieni di speranza. Niente inerzie del passato, niente rigidità. Apriamo gli occhi: attraverso le crisi – sì, è vero, ci sono le crisi –, i numeri che mancano – “Padre, non ci sono vocazioni, adesso andremo in quell’isola dell’Indonesia per vedere se ne troviamo qualcuna” –, le forze che vengono meno, lo Spirito invita a rinnovare la nostra vita e le nostre comunità. E come facciamo questo? Lui ci indicherà il cammino. Noi apriamo il cuore, con coraggio, senza paura. Apriamo il cuore. Guardiamo a Simeone e Anna: anche se sono avanti negli anni, non passano i giorni a rimpiangere un passato che non torna più, ma aprono le braccia al futuro che viene loro incontro. Fratelli e sorelle, non sprechiamo l’oggi guardando a ieri, o sognando di un domani che mai verrà, ma mettiamoci davanti al Signore, in adorazione, e domandiamo occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Il Signore ce li darà, se noi lo chiediamo. Con gioia, con fortezza, senza paura.
Infine, una terza domanda: che cosa stringiamo tra le braccia? Simeone accoglie Gesù tra le braccia (cfr v. 28). È una scena tenera e densa di significato, unica nei Vangeli. Dio ha messo suo Figlio tra le nostre braccia perché accogliere Gesù è l’essenziale, il centro della fede. A volte rischiamo di perderci e disperderci in mille cose, di fissarci su aspetti secondari o di immergerci nelle cose da fare, ma il centro di tutto è Cristo, da accogliere come il Signore della nostra vita.
Quando Simeone prende fra le braccia Gesù, le sue labbra pronunciano parole di benedizione, di lode, di stupore. E noi, dopo tanti anni di vita consacrata, abbiamo perso la capacità di stupirci? O abbiamo ancora questa capacità? Facciamo un esame su questo, e se qualcuno non la trova, chieda la grazia dello stupore, lo stupore davanti alle meraviglie che Dio sta facendo in noi, nascoste come quella del tempio, quando Simeone e Anna incontrarono Gesù. Se ai consacrati mancano parole che benedicono Dio e gli altri, se manca la gioia, se viene meno lo slancio, se la vita fraterna è solo fatica, se manca lo stupore, non è perché siamo vittime di qualcuno o di qualcosa, il vero motivo è che le nostre braccia non stringono più Gesù. E quando le braccia di un consacrato, di una consacrata non stringono Gesù, stringono il vuoto, che cercano di riempire con altre cose, ma c’è il vuoto. Stringere Gesù con le nostre braccia: questo è il segno, questo è il cammino, questa è la “ricetta” del rinnovamento. Allora, quando non abbracciamo Gesù, il cuore si chiude nell’amarezza. È triste vedere consacrati, consacrate amari: si chiudono nella lamentela per le cose che puntualmente non vanno. Sempre si lamentano di qualcosa: del superiore, della superiora, dei fratelli, della comunità, della cucina… Se non hanno lamentele non vivono. Ma noi dobbiamo stringere Gesù in adorazione e domandare occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Se accogliamo Cristo a braccia aperte, accoglieremo anche gli altri con fiducia e umiltà. Allora i conflitti non inaspriscono, le distanze non dividono e si spegne la tentazione di prevaricare e di ferire la dignità di qualche sorella o fratello. Apriamo le braccia, a Cristo e ai fratelli! Lì c’è Gesù.
Carissimi, carissime, rinnoviamo oggi con entusiasmo la nostra consacrazione! Chiediamoci quali motivazioni muovono il nostro cuore e il nostro agire, qual è la visione rinnovata che siamo chiamati a coltivare e, soprattutto, prendiamo fra le braccia Gesù. Anche se sperimentiamo fatiche e stanchezze – questo succede: anche delusioni, succede –, facciamo come Simeone e Anna, che attendono con pazienza la fedeltà del Signore e non si lasciano rubare la gioia dell’incontro. Andiamo verso la gioia dell’incontro: questo è molto bello! Rimettiamo Lui al centro e andiamo avanti con gioia. Così sia.

Omelia del Santo Padre – 2 febbraio 2022

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO Basilica di San Pietro – Mercoledì, 2 febbraio 2022
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Due anziani, Simeone e Anna, attendono nel tempio il compimento della promessa che Dio ha fatto al suo popolo: la venuta del Messia. Ma la loro attesa non è passiva, è piena di movimento. Seguiamo dunque i movimenti di Simeone: egli dapprima è mosso dallo Spirito, poi vede nel Bambino la salvezza e finalmente lo accoglie tra le braccia (cfr Lc 2,26-28). Fermiamoci semplicemente su queste tre azioni e lasciamoci attraversare da alcune domande importanti per noi, in particolare per la vita consacrata.
La prima è: da che cosa siamo mossi? Simeone si reca al tempio «mosso dallo Spirito» (v. 27). Lo Spirito Santo è l’attore principale della scena: è Lui che fa ardere nel cuore di Simeone il desiderio di Dio, è Lui che ravviva nel suo animo l’attesa, è Lui che spinge i suoi passi verso il tempio e rende i suoi occhi capaci di riconoscere il Messia, anche se si presenta come un bambino piccolo e povero. Questo fa lo Spirito Santo: rende capaci di scorgere la presenza di Dio e la sua opera non nelle grandi cose, nell’esteriorità appariscente, nelle esibizioni di forza, ma nella piccolezza e nella fragilità. Pensiamo alla croce: anche lì è una piccolezza, una fragilità, anche una drammaticità. Ma lì c’è la forza di Dio. L’espressione “mosso dallo Spirito” ricorda quelle che nella spiritualità si chiamano “mozioni spirituali”: sono quei moti dell’animo che avvertiamo dentro di noi e che siamo chiamati ad ascoltare, per discernere se provengono dallo Spirito Santo o da altro. Stare attenti alle mozioni interiori dello Spirito.
Allora ci chiediamo: da chi ci lasciamo principalmente muovere: dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo? È una domanda su cui tutti dobbiamo misurarci, soprattutto noi consacrati. Mentre lo Spirito porta a riconoscere Dio nella piccolezza e nella fragilità di un bambino, noi a volte rischiamo di pensare alla nostra consacrazione in termini di risultati, di traguardi, di successo: ci muoviamo alla ricerca di spazi, di visibilità, di numeri: è una tentazione. Lo Spirito invece non chiede questo. Desidera che coltiviamo la fedeltà quotidiana, docili alle piccole cose che ci sono state affidate. Com’è bella la fedeltà di Simeone e Anna! Ogni giorno si recano al tempio, ogni giorno attendono e pregano, anche se il tempo passa e sembra non accadere nulla. Aspettano tutta la vita, senza scoraggiarsi e senza lamentarsi, restando fedeli ogni giorno e alimentando la fiamma della speranza che lo Spirito ha acceso nel loro cuore.
Possiamo chiederci, noi, fratelli e sorelle: che cosa muove i nostri giorni? Quale amore ci spinge ad andare avanti? Lo Spirito Santo o la passione del momento, ossia qualsiasi cosa? Come ci muoviamo nella Chiesa e nella società? A volte, anche dietro l’apparenza di opere buone, possono nascondersi il tarlo del narcisismo o la smania del protagonismo. In altri casi, pur portando avanti tante cose, le nostre comunità religiose sembrano essere mosse più dalla ripetizione meccanica – fare le cose per abitudine, tanto per farle – che dall’entusiasmo di aderire allo Spirito Santo. Farà bene, a tutti noi, verificare oggi le nostre motivazioni interiori, discerniamo le mozioni spirituali, perché il rinnovamento della vita consacrata passa anzitutto da qui.
Una seconda domanda: che cosa vedono i nostri occhi? Simeone, mosso dallo Spirito, vede e riconosce Cristo. E prega dicendo: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (v. 30). Ecco il grande miracolo della fede: apre gli occhi, trasforma lo sguardo, cambia la visuale. Come sappiamo da tanti incontri di Gesù nei Vangeli, la fede nasce dallo sguardo compassionevole con cui Dio ci guarda, sciogliendo le durezze del nostro cuore, risanando le sue ferite, dandoci occhi nuovi per vedere noi stessi e il mondo. Occhi nuovi su noi stessi, sugli altri, su tutte le situazioni che viviamo, anche le più dolorose. Non si tratta di uno sguardo ingenuo, no, è sapienziale; lo sguardo ingenuo fugge la realtà o finge di non vedere i problemi; si tratta invece di occhi che sanno “vedere dentro” e “vedere oltre”; che non si fermano alle apparenze, ma sanno entrare anche nelle crepe della fragilità e dei fallimenti per scorgervi la presenza di Dio.
Gli occhi anziani di Simeone, pur affaticati dagli anni, vedono il Signore, vedono la salvezza. E noi? Ognuno può domandarsi: che cosa vedono i nostri occhi? Quale visione abbiamo della vita consacrata? Il mondo spesso la vede come uno “spreco”: “Ma guarda, quel ragazzo così bravo, farsi frate”, o “una ragazza così brava, farsi suora… È uno spreco. Se almeno fosse brutto o brutta… No, sono bravi, è uno spreco”. Così pensiamo noi. Il mondo la vede forse come una realtà del passato, qualcosa di inutile. Ma noi, comunità cristiana, religiose e religiosi, che cosa vediamo? Siamo rivolti con gli occhi all’indietro, nostalgici di ciò che non c’è più o siamo capaci di uno sguardo di fede lungimirante, proiettato dentro e oltre? Avere la saggezza del guardare – questa la dà lo Spirito –: guardare bene, misurare bene le distanze, capire le realtà. A me fa tanto bene vedere consacrati e consacrate anziani, che con occhi luminosi continuano a sorridere, dando speranza ai giovani. Pensiamo a quando abbiamo incontrato sguardi simili e benediciamo Dio per questo. Sono sguardi di speranza, aperti al futuro. E forse ci farà bene, in questi giorni, fare un incontro, fare una visita ai nostri fratelli religiosi e sorelle religiose anziani, per guardarli, per parlare, per domandare, per sentire cosa pensano. Credo che sarà una buona medicina.
Fratelli e sorelle, il Signore non manca di darci segnali per invitarci a coltivare una visione rinnovata della vita consacrata. Ci vuole, ma sotto la luce, sotto le mozioni dello Spirito Santo. Non possiamo fare finta di non vedere questi segnali e continuare come se niente fosse, ripetendo le cose di sempre, trascinandoci per inerzia nelle forme del passato, paralizzati dalla paura di cambiare. L’ho detto tante volte: oggi, la tentazione di andare indietro, per sicurezza, per paura, per conservare la fede, per conservare il carisma fondatore… È una tentazione. La tentazione di andare indietro e conservare le “tradizioni” con rigidità. Mettiamoci in testa: la rigidità è una perversione, e sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi. Né Simeone né Anna erano rigidi, no, erano liberi e avevano la gioia di fare festa: lui, lodando il Signore e profetizzando con coraggio alla mamma; e lei, come buona vecchietta, andando da una parte all’altra dicendo: “Guardate questi, guardate questo!”. Hanno dato l’annuncio con gioia, gli occhi pieni di speranza. Niente inerzie del passato, niente rigidità. Apriamo gli occhi: attraverso le crisi – sì, è vero, ci sono le crisi –, i numeri che mancano – “Padre, non ci sono vocazioni, adesso andremo in quell’isola dell’Indonesia per vedere se ne troviamo qualcuna” –, le forze che vengono meno, lo Spirito invita a rinnovare la nostra vita e le nostre comunità. E come facciamo questo? Lui ci indicherà il cammino. Noi apriamo il cuore, con coraggio, senza paura. Apriamo il cuore. Guardiamo a Simeone e Anna: anche se sono avanti negli anni, non passano i giorni a rimpiangere un passato che non torna più, ma aprono le braccia al futuro che viene loro incontro. Fratelli e sorelle, non sprechiamo l’oggi guardando a ieri, o sognando di un domani che mai verrà, ma mettiamoci davanti al Signore, in adorazione, e domandiamo occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Il Signore ce li darà, se noi lo chiediamo. Con gioia, con fortezza, senza paura.
Infine, una terza domanda: che cosa stringiamo tra le braccia? Simeone accoglie Gesù tra le braccia (cfr v. 28). È una scena tenera e densa di significato, unica nei Vangeli. Dio ha messo suo Figlio tra le nostre braccia perché accogliere Gesù è l’essenziale, il centro della fede. A volte rischiamo di perderci e disperderci in mille cose, di fissarci su aspetti secondari o di immergerci nelle cose da fare, ma il centro di tutto è Cristo, da accogliere come il Signore della nostra vita.
Quando Simeone prende fra le braccia Gesù, le sue labbra pronunciano parole di benedizione, di lode, di stupore. E noi, dopo tanti anni di vita consacrata, abbiamo perso la capacità di stupirci? O abbiamo ancora questa capacità? Facciamo un esame su questo, e se qualcuno non la trova, chieda la grazia dello stupore, lo stupore davanti alle meraviglie che Dio sta facendo in noi, nascoste come quella del tempio, quando Simeone e Anna incontrarono Gesù. Se ai consacrati mancano parole che benedicono Dio e gli altri, se manca la gioia, se viene meno lo slancio, se la vita fraterna è solo fatica, se manca lo stupore, non è perché siamo vittime di qualcuno o di qualcosa, il vero motivo è che le nostre braccia non stringono più Gesù. E quando le braccia di un consacrato, di una consacrata non stringono Gesù, stringono il vuoto, che cercano di riempire con altre cose, ma c’è il vuoto. Stringere Gesù con le nostre braccia: questo è il segno, questo è il cammino, questa è la “ricetta” del rinnovamento. Allora, quando non abbracciamo Gesù, il cuore si chiude nell’amarezza. È triste vedere consacrati, consacrate amari: si chiudono nella lamentela per le cose che puntualmente non vanno. Sempre si lamentano di qualcosa: del superiore, della superiora, dei fratelli, della comunità, della cucina… Se non hanno lamentele non vivono. Ma noi dobbiamo stringere Gesù in adorazione e domandare occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Se accogliamo Cristo a braccia aperte, accoglieremo anche gli altri con fiducia e umiltà. Allora i conflitti non inaspriscono, le distanze non dividono e si spegne la tentazione di prevaricare e di ferire la dignità di qualche sorella o fratello. Apriamo le braccia, a Cristo e ai fratelli! Lì c’è Gesù.
Carissimi, carissime, rinnoviamo oggi con entusiasmo la nostra consacrazione! Chiediamoci quali motivazioni muovono il nostro cuore e il nostro agire, qual è la visione rinnovata che siamo chiamati a coltivare e, soprattutto, prendiamo fra le braccia Gesù. Anche se sperimentiamo fatiche e stanchezze – questo succede: anche delusioni, succede –, facciamo come Simeone e Anna, che attendono con pazienza la fedeltà del Signore e non si lasciano rubare la gioia dell’incontro. Andiamo verso la gioia dell’incontro: questo è molto bello! Rimettiamo Lui al centro e andiamo avanti con gioia. Così sia.

AVVENTO 2021

Siamo alle porte dell’Avvento e la Chiesa, unica mediatrice di salvezza, nella sua mirabile pedagogia ci pone di fronte il percorso dell’Anno C, alla scuola della Sacra Liturgia.
Educhiamo il nostro orecchio all’ascolto della Parola in modo tale che la memoria della nostra salvezza diventi memoriale.
La parola “Avvento” esprime attesa, diviene speranza, così importante e necessaria a noi, uomini e donne del nostro tempo così carico di incertezze a causa del flagello della pandemia!
Sì, il Signore è venuto, verrà, viene ogni anno attraverso la liturgia, viene ogni giorno, nell’imminente anno liturgico: Anno C., anno di grazia e di salvezza.
Di settimana in settimana con Maria, porta dell’Avvento, donna del Sì, cammineremo incontro alla Salvezza unendo il nostro sì al Suo, perché la grazia trovi spazio anche nel nostro cuore e il Verbo prenda carne nella nostra vita, nella nostra storia, riaprendoci alla vera gioia.
Madre Aurea Perniola DGE

Testimonianza di sr. Savina Tamborrino

Andando lontano con il pensiero, negli anni di formazione a Marano, ricordo con nostalgia e grande gioia quel tempo che non dimenticherò mai: quando il Padre qualche volta da Tricarico veniva nella sua casa a Marano; la nostra carissima maestra Suor Letizia Nigro, con la sua amabilità, otteneva dal Padre il dono di fare ricreazione insieme a lui. Per noi era una gioia indescrivibile. Lui con il suo umorismo napoletano ci faceva divertire tantissimo. In ogni battuta la parte morale non mancava mai. Una volta ci portò l’esempio dei chiodi arrugginiti, messi in un sacco, che stropicciandosi l’un l’altro divennero lucidi. Così avviene nelle nostre comunità, quando riusciamo a superare con tanto amore le nostre fragilità, diversità di educazione, di cultura, di carattere; allora sì, le nostre comunità diventano comunità di persone che rendono bello lo stare insieme con spirito eucaristico, mettendo in pratica il comandamento dell’amore.
Il Padre ci esortava sempre a mettere in pratica la Parola di Dio che la liturgia ci offre ogni mattina nell’Eucarestia. Tutte le volte che ho avuto la gioia di incontrarlo ho scoperto in lui una dolcezza, una carità, un’amabilità eccezionale, che traspariva nel suo atteggiamento; anche quando per fragilità sbagliavi, ti faceva capire lo sbaglio, ma sempre con quel tocco di perdono, di dolcezza, di carità di padre affettuoso.
Suor Savina Tamborrino

Testimonianza di Sr Rosalba

Sono entrata in comunità il 10 ottobre 1955, accompagnata dal mio papà, a Tricarico. Arrivata a Santa Chiara, la superiora Sr Maria Antonietta, dopo due giorni, mi accompagnò all’episcopio per conoscere e salutare Mons. Raffaello Delle Nocche. Il mio papà e Monsignore s’incontrarono come fratelli … si parlarono e nel salutarsi, il Padre disse: “Vincenzo, parti tranquillo, tua figlia è in buone mani! … e sarà una brava Discepola!” Passarono 6 mesi di aspirantato; eravamo 40 aspiranti a Santa Chiara, ci seguiva Sr Teresa Albanese, ma ogni settimana ci mandava dal Padre per un breve incontro, che ci aiutasse nella nostra formazione, con poche parole e la benedizione con la mano sulla testa e ci diceva: “Va’ e fatti santa!” Passati i sei mesi, partimmo per Marano, una ventina di noi. Ci accolsero la maestra Sr Letizia Nigro e Sr Irma Tempesta. La maestra era molto malata e Sr Irma non poteva seguirci tutte, sentivamo la mancanza della parola del Padre e così veniva spesso a Marano, per incontrarci, lui e la Madre Maria. Così ci preparammo per altri sei mesi come postulanti. Nel 1956 Sr Luigina e Sr Liberata ci prepararono per festeggiare gli 80 anni del nostro Padre e quando ci sentiva cantare scherzava dicendo: “Brave, brave, siete vere cantanti!”. Il suo ottantesimo compleanno fu una gioia grande per tutti … ma per la sua umiltà non voleva le feste e ci disse: “Fate una bella Messa e pregate per me!” La Messa fu celebrata nella piccola chiesa di Marano, gremita di personaggi e sacerdoti, venuti da tante parti, che non si sapeva dove metterli … In quel giorno si presentò anche il mio papà per fare gli auguri al suo Vescovo, che amava tanto … si faceva lunghe confessioni; quando sapeva che era a Marano veniva da Mondragone. Il 6 agosto 1956 facemmo la vestizione; allora si cambiava il nome di Battesimo e a me disse: “Non ti chiamerai più Anna Maria, ma Sr Rosalba”. Quando uscimmo nel cortile, nel darci gli auguri io gli dissi: “Padre, il mio nome non esiste sul calendario, quando devo festeggiarlo?” Mi guardò e disse: “Tu devi farti santa!” Questa frase non l’ho mai dimenticata. Il 1957, sempre a Marano, facemmo la Professione religiosa, eravamo 15, davanti a lui e a Gesù. Dopo due giorni ci chiamò tutte e disse: “Figliuole, Gesù vi ha chiamate e avete detto il vostro Sì per sempre. Ora, come i Discepoli, andate là dove l’ubbidienza vi manda, amate la vostra vocazione fino alla morte.”
Dopo due mesi la Madre mi mandò a Boiano per studiare; finita la scuola, mi mandò a Roma per la scuola materna. Nel 1960 solo due volte ebbi la gioia di rivedere il Padre. Poi non lo vidi più, ma i miei due padri, Vincenzo che mi ha dato la vita e Padre Raffaello che mi ha seguita nella vita religiosa, mi sono stati sempre accanto, nella mia vita missionaria, per 50 anni.
Suor Rosalba Pagliaro

Testimonianza

Sono entrata in comunità il 15 settembre 1958, all’età di 13 anni. Ero un’aspirante destinata a Mugnano, dove in quegli anni l’Istituto stava accogliendo le aspiranti così giovani. Ma prima fui accompagnata a Tricarico e lì incontrai subito il Padre Fondatore. Da Santa Chiara andavo a visitarlo con le aspiranti più grandi, finché non partii per Mugnano. Ci accoglieva con tanto affetto, s’interessava di ognuna di noi e ci esortava alla virtù.
Poi l’ho visto più volte a Mugnano e a Marano, perché quando veniva a Napoli, visitava tutte le comunità. Ricordo che suonava la campana e ci riunivamo tutte, suore e aspiranti, in una stanza e il Padre s’intratteneva con noi amabilmente, ci parlava e ci ascoltava proprio come un padre. Poi ci chiamava singolarmente, anche noi che eravamo le ultime e ancora così giovani. Mi meravigliava il suo interesse per me, che certo avevo la vocazione ed ero tanto contenta, ma non sapevo cosa dire. Vedendomi seria e timida, mi congedava sempre dicendo: “La prossima volta ti voglio vedere più allegra”. E mi segnava con la sua benedizione.
Una volta doveva andare a Copertino e mi chiese se volevo andare con Lui: era per tentare se avevo nostalgia di casa. Un’altra volta andai a salutarlo, perché dovevo andare a casa per l’estate. Allora mi disse: “Ti raccomando, mangia molte pagnotte!” Era tanto santo quanto umano.
Ma il ricordo più bello che mi risuona sempre in cuore è quello dell’ultima volta che l’ho incontrato, già molto malato, il 3 settembre del 1960. Ero tornata da casa, viaggiando con una suora. Arrivate a Tricarico, il primo pensiero della suora fu di andare all’episcopio per salutare il Padre. Mi lasciò in portineria e lei salì da sola. Il Padre era in camera, già sulla sedia a rotelle, molto sofferente. Chiese di me alla suora e mi mandò a chiamare, perché voleva vedermi. Arrivata da lui lo salutai baciandogli la mano, lui mi guardò con tenerezza e mi disse: “Brava! Sempre fedele!”. Era una lode e una raccomandazione.
Suor Marilinda Ciccarese